Si tratta di un fenomeno già riscontrabile prima della pandemia, e che non accenna di fatto a diminuire. La parità di genere resta ancora incompiuta, malgrado la tutela costituzionale, così come le diverse declinazioni che essa può assumere in termini di uguaglianza retributiva, merito e conciliazione con la vita familiare.
Di queste e di altre tematiche si è parlato proprio nel corso di un convegno sull’emancipazione femminile, tenutosi nelle scorse settimane a Ostuni, nella prestigiosa Masseria Montalbano.
A confrontarsi su questo attualissimo quanto delicato tema, accanto a Emanuela D’Aversa, responsabile relazioni industriali di FederTerziario ci sono stati, tra gli altri, Tiziana Nisini, senatrice, già Sottosegretaria di Stato al Ministero del lavoro e delle politiche sociali; Aldo Patruno, direttore generale del dipartimento Turismo e Cultura della Regione Puglia; Isa Maggi, presidente degli Stati Generali delle Donne; Alessandra Moretti, co-direttrice del centro studi Federmep; Francesca Troiano, psicologa, psicoterapeuta ed ex parlamentare.
Molteplici sono i fattori emersi e che frenano l’occupazione femminile. Tra questi, possono essere individuati certamente la carenza di servizi, i pregiudizi sul luogo di lavoro, le difficoltà strutturali di un contesto sociale che non supporta a sufficienza le lavoratrici madri e fa sì che le donne si trovino spesso di fronte a un bivio e a scegliere in modo alternativo o la carriera lavorativa o la famiglia.
Focus sul gap di genere in Europa e in Italia: alcuni dati
Nel Vecchio Continente – Dalla lettura del rapporto Eurostat “Employment and activity by sex and age”, con dati aggiornati a febbraio 2022, emerge che nella popolazione europea compresa nella fascia di età che va dai 20 ai 64 anni, il tasso di occupazione maschile è del 77,2%, mentre quello femminile è del 66,2%, con un gap che si attesta all’11%.
In Italia – Il tasso di occupazione per gli uomini tra i 15 e 64 anni di età, nell’anno 2021, si attesta al 67,1%, per le donne invece scende al 49,4%: questo significa che meno di una donna su due, in questa fascia di età, risulta occupata (a fronte di due uomini su tre), e che il divario da colmare è di 17,7 punti nella media nazionale. Inoltre, il gap va a differenziarsi tra le regioni italiane: se è infatti di 14,2 punti al Nord, e cresce al Centro con 14,9 punti, si amplifica consistentemente al Sud, dove raggiunge i 23,8 punti percentuali, con appena una donna occupata su tre.
Dai dati del rapporto Istat “BES 2021: il benessere equo e sostenibile. 21 aprile 2022” emerge inoltre che, se si considera la fascia di età che va dai 25 ai 49 anni, a essere occupate sono in misura maggiore le donne senza figli, con il 73,9%, rispetto alle madri che hanno almeno un figlio di età inferiore ai 6 anni, ovvero il 53,9%. Un dato che chiarisce ancor di più come a incidere sul divario sia, inevitabilmente, la presenza di figli.
Secondo l’Istat, chiaramente ciò porta con sé anche un calo demografico: nel 2021, infatti, le nascite sono scese dell’1,3% rispetto all’anno precedente e addirittura del 31% rispetto al 2008. Un tasso di natalità che raggiunge i minimi storici, con i nuovi nati al di sotto dei 400 mila.
Motivo per il quale, secondo il rapporto annuale INPS del 2022, se si vuole conciliare il lavoro e le varie attività di cura e sostegno della famiglia, molte donne sono costrette a scegliere il contratto part-time e, anche in questo caso, a venir fuori è una marcata disparità tra uomini e donne: il 46% delle donne occupate ha questo tipo di inquadramento, a fronte del 18% degli uomini.
È evidente dunque che vanno definite e strutturate le politiche sociali in favore delle madri e di giovani in generale. Molti studi sostengono, infatti, quanto sia importante mettere in atto misure efficaci e mirate che permettano di adeguare le esigenze della genitorialità con l’ingresso o la permanenza delle donne-madri nel mondo del lavoro. Investire sulle politiche di welfare, infrastrutture sociali e forme di assistenza domiciliare per anziani e soggetti fragili, porta come immediato risultato l’aumento consequenziale del welfare secondario e del terzo settore e una possibile inversione del preoccupante trend di denatalità.
Divario retributivo e imprenditoria femminile
Dallo stesso rapporto dell’Istat emerge un altro dato da non sottovalutare: il 27,4% delle donne occupate svolge una mansione inferiore rispetto al livello di istruzione che possiede. E non solo. Anche i dati Eurostat parlano chiaro: le donne studiano di più, si laureano in breve tempo e con una votazione maggiore ma, una volta trovato il lavoro, a soli 5 anni dalla laurea, guadagnano in media il 20% in meno rispetto agli uomini.
E non va meglio se si pensa al ruolo di guida delle imprese: oggi su 6 milioni di imprese in Italia, 1.342.000 milioni sono guidate da donne, solo il 22,2% del totale (di queste, il 23,7% sono a Sud e il 20% a Nord).
Alcune conclusioni
Da una lettura approfondita dei dati emerge chiaramente una situazione di squilibrio, anche ma non solo, professionale. Proprio per questo motivo, è sempre più necessario garantire equità nei percorsi di carriera, colmando il gender pay gap e garantendo eguale accesso ai ruoli di responsabilità. Solo seguendo questa linea, sarà possibile migliorare la conciliazione tra vita privata e lavoro e ottenere un empowerment femminile e genitoriale.
Uno specchio del ritardo con cui in Italia si sia cominciato a ragionare seriamente sugli impatti negativi che discendono da una bassa partecipazione delle donne, è anche dato dall’insufficienza di infrastrutture sociali che potrebbero aiutare la permanenza delle donne nell’occupazione, come asili nido, babysitter o strumenti di cura domiciliare o medicina di prossimità per le persone anziane o disabili.
Inoltre, tra le condizioni di lavoro che determinano una difficile conciliabilità lavoro-famiglia, è inclusa la distanza dal luogo di lavoro, l’orario o i cambi di sede interni.