Gli stimoli che arrivano dall’Europa – all’inizio di ottobre il Consiglio dell’Ue ha adottato la legislazione comunitaria in materia di salari minimi adeguati – impongono una riflessione a più ampio raggio sull’efficacia dell’applicazione del salario minimo e anche sull’opportunità di considerare questa misura come una priorità rispetto ad altri strumenti che invece sarebbero necessari per rilanciare il Paese.
“A nostro avviso prima di arrivare a un salario minimo legale – spiega Nicola Patrizi, presidente di FederTerziario -, esistono altre soluzioni da individuare al fine di un cambiamento sistemico che dovranno necessariamente passare dagli incentivi finalizzati alla riduzione del cuneo fiscale e del costo del lavoro indiretto, individuando magari metodi alternativi di decontribuzione e misure fiscali ad hoc. In questo senso appare necessario considerare l’ipotesi di aprire un dibattito con le parti sociali per disegnare una riforma – un percorso più volte proposto da FederTerziario – destinata proprio a ridurre il cuneo fiscale che in Italia grava sul costo del lavoro per circa il 46%”.
Al centro dell’azione europea per stimolare gli Stati membri alla creazione di un quadro per i salari minimi c’è l’esigenza di arginare la diffusione del dumping contrattuale, così da limitare le differenze in termini di costo del lavoro che finiscono per penalizzare quegli imprenditori che decidono di mantenere salari dignitosi. FederTerziario ha sviluppato diverse soluzioni per mantenere elevata la competitività delle aziende, incidendo sul costo del lavoro e operando di fatto per scardinare lo sviluppo di una potenziale concorrenza sleale.
“Sappiamo che il dumping salariale genera danni alla capacità di reddito dei lavoratori e in termini di competitività alle imprese che cercano di mantenere standard salariali adeguati – sottolinea Alessandro Franco, segretario generale di FederTerziario –. Esiste una riduzione efficiente del costo del lavoro, soprattutto indiretto, magari attraverso meccanismi di decontribuzione o contribuzione incrementale in base ad una serie di fattori predeterminati. Un’azione del genere definirebbe un vantaggio anche per i lavoratori, sia in termini di stabilizzazione delle retribuzioni, non più al ribasso, sia in termini di aumento dell’occupazione che potrebbe generarsi da tale sistema”.
Le vie per attivare nuove strategie si rintracciano soltanto se si opera per superare i vecchi dogmi delle relazioni sindacali e, allo stesso tempo, incanalare nella giusta direzione i cambiamenti del mondo lavoro. È sufficiente considerare, a questo proposito, che rispetto al passato, quando tradizionalmente l’adeguamento del sistema retributivo era legato a un incremento dei benefici economico-finanziari, adesso i sistemi di welfare e di prestazioni a carico della bilateralità trovano sempre maggiore spazio.
“In tale contesto – aggiunge il Presidente – è emerso il ruolo sempre più centrale degli istituti del welfare che, nati principalmente nella dimensione aziendale e cresciuti in un contesto di sistema contrattuale fortemente incentrato sul contratto nazionale di categoria, sono poi riusciti ad espandere il loro campo applicativo fino a divenire un tema centrale degli accordi di rinnovo dei contratti nazionali”.
Secondo una proiezione effettuata dal Centro Studi di FederTerziario, guidato dal professore Francesco Verbaro, il salario orario medio, calcolato su 4 tra i principali contratti FederTerziario, è di 9,21 euro per i lavoratori del livello/area di inquadramento più basso (che ricomprende neo-assunti e lavoratori senza competenze specifiche) e di 10,49 euro per un dipendente mediamente qualificato (la base principale dei lavoratori). Un tetto superiore ai 9 euro lordi l’ora che, secondo le ultime proposte, dovrebbero costituire il livello del salario minimo. In questo senso, l’eventuale attivazione della misura del salario potrebbe invertire la tendenza e quindi stimolare le imprese alla fuga dai contratti collettivi, un fenomeno già registrato in altri Paesi. La soluzione potrebbe invece essere più semplice: considerando che la contrattazione collettiva copre circa il 90% della forza lavoro, sarebbe sufficiente ragionare su un suo allargamento.
Esiste certamente un altro capitolo strategico da affrontare e che riguarda una certa fascia di categorie di soggetti sottopagati: anche per loro non è detto che il salario minimo possa avere un peso specifico per migliorarne la posizione reddituale. Lo ribadisce il Segretario generale: “Spesso nel nostro Paese il vero problema è stato quello di riuscire ad attivare e rendere efficaci strumenti volti a garantire l’effettivo rispetto delle norme in materia di lavoro e, in questo senso, l’introduzione di un salario minimo non risolverebbe, di per sé, il problema di adeguare i salari più bassi, perché rimarrebbe irrisolto il nodo centrale del controllo sull’effettivo rispetto della misura ‘legale’, dati i fenomeni di ‘nero’ e ‘grigio’ presenti nel mercato del lavoro”.