La crisi economica generata dalla pandemia e dalla recente crisi energetica hanno posto l’accento ancora una volta sulla necessità di apportare dei significativi cambiamenti al mercato del lavoro in grado di contemperare le esigenze di riduzione del costo del lavoro delle aziende alla necessità dei lavoratori di avere una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del proprio lavoro, e sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, come sancito dall’art. 36 della nostra Costituzione.
Pertanto, uno dei temi caldi di questi ultimi mesi è quello del salario minimo.
La proposta di direttiva europea, così come le proposte di alcuni partiti italiani, dunque, rientrano in un tale scenario.
Al di là dei tecnicismi, è condivisibile quanto dichiarato in merito alla proposta di direttiva europea sul salario minimo dalla Presidente von der Leyen: “Il dumping salariale distrugge la dignità del lavoro, penalizza l’imprenditore che paga salari dignitosi e falsa la concorrenza leale nel mercato unico. Per questo motivo la Commissione presenterà una proposta legislativa per sostenere gli Stati membri nella creazione di un quadro per i salari minimi. Tutti devono poter accedere a salari minimi, che sia attraverso contratti collettivi o salari minimi legali“.
È giusto, quindi, combattere il dumping salariale ma occorre capire se per sconfiggerlo inserire un salario minimo sia la strada più efficace.
Ecco alcuni spunti, che esulano da visioni politiche, forniti provando a ragionare, non sugli scopi promozionali e sulle finalità virtuose cui tende una proposta su questo tema, ma sulla efficacia dello strumento legislativo ipotizzato.
ALCUNI SPUNTI DI RIFLESSIONE
A nostro avviso prima di arrivare ad un salario minimo legale, l’ampio spettro di soluzioni da individuare, al fine di un cambiamento sistemico, non potrà non passare dagli incentivi finalizzati alla riduzione del cuneo fiscale e alla riduzione del costo del lavoro indiretto, individuando magari metodi alternativi di decontribuzione e misure fiscali ad hoc.
Tradizionalmente il sistema retributivo è legato a meccanismi che determinano un incremento di carattere economico-finanziario a beneficio del lavoratore, ma i recenti cambiamenti economico-sociali hanno quantomeno scalfito tale concezione. Ciò si evince anche dal contenuto dei rinnovi dei contratti collettivi nazionali, in cui si riserva sempre maggiore spazio alla definizione di sistemi di welfare e di prestazioni a carico della bilateralità. Tali sviluppi potrebbero portare ad un nuovo modo di intendere la retribuzione.
Ciò che è certo è che, per apportare dei cambiamenti radicali, occorre superare logiche e dogmi tradizionali delle relazioni sindacali e recepire i mutamenti del mondo del lavoro.
In tale processo evolutivo sarà determinante il ruolo delle relazioni industriali per ripensare un sistema delle retribuzioni che permetta di ridurre i costi del lavoro ma al contempo preservi la retribuzione del lavoratore, rispettando i dettami costituzionali.
In tale contesto è emerso il ruolo sempre più centrale del welfare, Infatti, gli istituti del welfare, nati principalmente nella dimensione aziendale, e cresciuti in un contesto di sistema contrattuale fortemente incentrato sul contratto nazionale di categoria, sono poi riusciti ad espandere il loro campo applicativo fino a divenire un tema centrale degli accordi di rinnovo dei contratti nazionali.
Dunque, le misure di welfare hanno già costituito un fattore di innovazione sulla struttura tradizionale della nostra contrattazione e potrebbero avere un’ulteriore ingerenza anche nella trasformazione dell’idea di correspettività nel contratto di lavoro.
La crescita del welfare e dei benefits costituisce una prova dell’arricchimento dello scambio del rapporto di lavoro, anche in senso sociale, in quanto più legato a bisogni individuali e collettivi del lavoratore che nella società moderna si estrinseca in forme totalmente nuove rispetto al passato. Tali bisogni possono essere soddisfatti, come ribadito spesso nelle premesse dei nostri contratti, anche all’interno dell’azienda e del rapporto di lavoro.
Nel corso degli ultimi anni, a partire dalla legge di stabilità 2016, le iniziative di welfare aziendale hanno rappresentato l’unica vera arma di riduzione fiscale e contributiva del costo del lavoro.
Non si è riusciti a trovare altre modalità per incidere sul costo del lavoro e per ridurre il cuneo fiscale.
È evidente, comunque, come i provvedimenti di incentivazione, fiscale e contributiva che si sono susseguiti, attraverso molteplici discipline, hanno tutti avuto l’obiettivo di rafforzare il collegamento funzionale tra retribuzione e andamento economico dell’impresa.
In tal senso, l’art. 36 Cost. non ostacolerebbe dei nuovi modi di disciplinare la retribuzione, con maggiore collegamento alla premialità ed alla produttività. Infatti, al di là della sufficienza, che potrebbe essere collegata anche a servizi e prestazioni non meramente di natura monetaria, il principio di proporzionalità potrebbe riguardare anche la capacità produttiva, la competenza ed il rendimento del lavoratore.
È cristallino che la riduzione del costo del lavoro e un aumento degli incentivi alla produttività porterebbe notevoli vantaggi alle imprese. Queste ultime sono costrette a competere in un mercato in cui il dumping salariale è utilizzato per abbassare i costi, generando così un danno alla capacità di reddito dei lavoratori. Al contrario, una riduzione efficiente del costo del lavoro, soprattutto indiretto, magari attraverso meccanismi di decontribuzione o contribuzione incrementale in base ad una serie di fattori predeterminati, definirebbe un vantaggio anche per i lavoratori, sia in termini di stabilizzazione delle retribuzioni, non più al ribasso, sia in termini di aumento dell’occupazione che potrebbe generarsi da tale sistema.
Infatti, la Direttiva europea cha ha dato origine al dibattito sul salario minimo specifica che quest’ultimo non deve andare a danno della contrattazione collettiva, ma servire di supporto, senza alterarne gli equilibri. Il rapporto tra l’eventuale introduzione di un salario minimo legale e il sistema della contrattazione collettiva esistente, pertanto, deve tenere conto anche del fenomeno della c.d. “fuga” dal contratto collettivo che si sta registrando, già da tempo, in vari paesi europei che hanno adottato il sistema del salario minimo legale, anche in presenza di una consolidata tradizione di contrattazione collettiva.
Inoltre, occorre tenere conto, come detto, che il sistema delle relazioni contrattuali italiano ha consentito l’introduzione nei contratti collettivi di una serie di tutele e integrazioni di significativo valore economico e sociale e che il valore complessivo di un contratto collettivo non può essere misurato sulla scorta della sola retribuzione oraria, poiché molto spesso i contratti prevedono benefit e prestazioni che garantiscono livelli di servizi sanitari, sostegno alla famiglia e sostegno al reddito che troppe volte il sistema di welfare pubblico non riesce più assicurare.
Partendo da questi presupposti, dal punto di vista costituzionale, occorre altresì rilevare come la giurisprudenza abbia più volte ribadito l’incostituzionalità, ai sensi del disposto dell’art. 39 Cost. (che pone dei pesanti limiti anche in tema di rappresentatività), di tutte quelle norme che hanno provato ad estendere a tutti i lavoratori le disposizioni dei contratti collettivi, specificando altresì che i contratti collettivi possono solo essere utilizzati come parametro esterno di valutazione nell’attuazione dell’art. 36 Cost.
Quindi, un’applicazione del salario minimo legale, priva di una necessaria e preventiva risoluzione delle problematiche in merito alla rappresentanza, al dumping contrattuale ed al costo del lavoro, potrebbe non produrre gli effetti desiderati.
IL RUOLO DI FEDERTERZIARIO
A titolo esemplificativo, in caso di introduzione di un salario minimo di circa 9 euro lordi l’ora (come fissato nelle ultime proposte presentate), i nostri contratti sarebbero già ampiamente sopra tale soglia.
Premesso che, ad oggi, non ci sono criteri univoci di calcolo per il salario minimo, consideriamo ai fini di questo calcolo soltanto paga base e mensilità aggiuntive, prendendo a riferimento un lavoratore a tempo pieno senza caratteristiche personali e legate alla mansione che ne farebbero aumentare lo stipendio[1].
Il salario orario medio 4 tra i principali contratti FederTerziario[2] sarebbe di 9,21 euro per i lavoratori del livello/area di inquadramento più basso (che ricomprende neo-assunti e lavoratori senza competenze specifiche) e di 10,49 euro per un dipendente mediamente qualificato (la base principale dei lavoratori).
Alla luce della velocità con cui gli attori delle relazioni industriali riescono ad intercettare le necessità del mercato (quantomeno lo fanno più velocemente del legislatore), FederTerziario ritiene che soltanto attraverso il confronto con le parti sociali, effettive protagoniste del contesto produttivo italiano, si possa innescare quel meccanismo di riforme, lavoristiche e fiscali, necessario al fine di contemperare le esigenze di salari adeguati dei lavoratori con dei costi del lavoro maggiormente rispondenti alle necessità delle imprese, anche attraverso l’implementazione di meccanismi legati alla premialità e alla produttività.
Non a caso, con i recenti rinnovi contrattuali, grazie anche al confronto con la parte sindacale, FederTerziario, è già intervenuta per aumentare i livelli retributivi delle imprese che applicano i nostri contratti senza che vi sia una legge sul salario minimo.
[1] Non considerando quindi TFR, scatti di anzianità, indennità legate alla mansione, premi ecc.
[2] A titolo esemplificativo si sono presi a riferimento i recenti: CCNL per i dipendenti delle aziende operanti nel settore Outsourcing – Insourcing, attività intra processo, supply chain industria e servizi; CCNL per i dipendenti delle aziende del settore turismo, dei pubblici esercizi e della ristorazione; CCNL Logistica, Trasporto Merci e Spedizioni; CCNL Per I Dipendenti Delle Micro, Piccole E Medie Imprese Aziende Del Settore Terziario, Commercio e Servizi.